Difficilmente leggo l’ultima uscita arroccata in vetta alle classifiche. Essendo a conoscenza di alcuni meccanismi editoriali volti a creare il “fenomeno del momento”, è più probabile che io giri tra gli scaffali bassi e nascosti delle librerie o setacci direttamente i siti delle piccole case editrici. Di Vox però mi sono incuriosita, perché leggo anche distopico e l’esperienza che ho avuto pubblicando Far West mi ha confermato le potenzialità del genere e i pregiudizi verso lo stesso. Così Vox me lo sono comprato e letto, contribuendo anche io, con la mia moneta, ad alimentare le classifiche. Non posso dirmi del tutto soddisfatta: Vox è un libro strano, con un paio di spunti molto validi, senza i quali l’avrei bocciato eppure ritengo che vada letto con attenzione. Qui a seguire vi spiego il perché nel dettaglio. [trovate parte di questa recensione anche su Amazon]->…
Nella distopia è fondamentale la coerenza e l’originalità nella costruzione del mondo. Se avete letto Il racconto dell’ancella noterete che Vox ha tante analogie con il romanzo della Atwood, nemmeno troppo mascherate. Abbiamo una dittatura di stampo conservatore presente solo negli USA, la frontiera da varcare per la libertà è quella del Canada. La protagonista narra la storia in prima persona e dedica spesso un pensiero alle nuove generazioni, che non conosceranno mai la libertà, ma nemmeno la rimpiangeranno. Anche in Vox troviamo i campi di lavoro per i trasgressori, i bancomat, i conti e i passaporti delle donne vengono bloccati con un click e altri espedienti già letti. Tuttavia qui ci si concentra sulla parola e sull’espressione. La protagonista è una scienziata esperta in neurofisiologia, che prima dell’avvento del regime era impegnata in studi di successo. Ora non può più lavorare e indossa – come tutte le donne – un braccialetto che le impartisce una scossa elettrica se pronuncia più di cento parole al giorno. Ma qualcosa accade e Jane, così si chiama la protagonista, viene coinvolta nella realizzazione di un siero in grado di agire sull’area di Wernicke. Un siero che guarisce dall’afasia in pochi istanti, ma che… E non dico di più. Si dà il caso, però, che io dal 2002 abbia un padre afasico e qui scivoliamo nella fantascienza. Se esiste un metodo per risolvere l’afasia come l’aspirina cancella mal di testa, per favore… chiamatemi!
Molto, molto stuzzicante invece uno dei temi ricorrenti, ossia le conseguenze imprevedibili del disinteresse. Il non partecipare, non votare, non manifestare, l’alzare le spalle e lasciare che la vita politica e sociale di un paese facciano il loro corso può sembrare un atteggiamento superficiale, ma non pericoloso… fin quando ci si trova intrappolati nelle rete che non abbiamo impedito al ragno di tessere. È già successo che le cose andassero male e qualcuno gridasse a gran voce il nome del capo espiatorio. L’ultima volta capitò agli ebrei… in questo caso, la colpa di una società problematica è ricaduta sulle donne emancipate.
La prima parte del libro è lenta, dettagliata, angosciante. Poi il ritmo accelera sempre di più, fino a diventare addirittura superficiale e confuso nel finale. C’è una resistenza che si vede appena, non si capisce bene quali piani alimenti e chi ne faccia parte. La scena risolutiva non viene mostrata, ma solo accennata nelle parole frettolose di un personaggio secondario. Il finale è davvero veloce e, a tratti, specie la parte interna al laboratorio, confuso. Più che di una scelta narrativa, credo che si tratti proprio di un limite nel “world building”, che è caratteristica fondamentale nel genere distopico. All’autrice erano cari alcuni temi, per raccontarli all’ennesima potenza ha scelto di calarli in un contesto che però non è stata pienamente in grado di gestire. Non a caso il libro ha dei punto molto forti e altri molto deboli. Insomma, qualcosa non va.