Io al Salone del libro di Torino ci vado. Manco da tre anni e sono contenta di esserci, al netto di tutti i problemi organizzativi (chiedere l’accredito autore o una donazione di midollo sono azioni che richiedono procedure simili).
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Sarò, peraltro, a piede libero. Il mio nuovo editore è piccino e non va alle fiere, il precedente non mi ha invitata allo stand e così sono libera di essere davvero produttiva. Perché é più importante scambiare idee che vendere qualche copia, a mio avviso. Il contatto umano vale più di quella piccola percentuale sul netto che ci spetta. Noi autori siamo il primo anello di un’industria che cresce – tra editor, grafici, tipografi, contabili – e sboccia nelle fiere nazionali e interazionali, ma siamo l’anello più tartassato e denigrato. Tra clausole vessatorie, minacce verbali, agenti che ci descrivono come degli psicopatici in cerca di visibilità (ci sono in ogni ambiente, parola di segretaria), uno si chiede chi glielo faccia fare a scrivere.
Sostanzialmente, scrivere è vivere con golosità.
Ma non era questo che volevo dire.
Era che io al Salone ci vado e ne sono fiera.
Ci arriverò con un treno, che plausibilmente arriverà in orario nonostante si sia ancora in democrazia. E la democrazia è una cosa talmente bella che c’è persino chi può permettersi di denigrarla, perché è proprio lei stessa che gli permette di farlo. Per la libertà di opinione.
Chiunque può scrivere un libro e raccontare la sua storia, ma il problema sono le dichiarazioni di chi l’ha pubblicato, non certo il libro. Anzi, ben venga che personaggi istituzionali facciano lavorare noi ghostwriter, che non avremo mai pensione.
Il problema è un altro. È usare libri leciti come teste di ponte per altro.
Libertà di espressione, attenzione, non vuol dire libertà di reato.
Perché io non posso fare apologia della pedofilia e di qualsiasi cosa sia vietata per legge.
Chiaro, chi si becca flussi di denaro da organizzazioni italiane e straniere non ha questi problemi. Non studia e trova lavori di prestigio, delinque ed esce dal carcere come se nulla fosse. Se cade, cade in piedi. Ha sempre un aiuto.
Io no.
Per questo io taccio.
Questa gente io non la voglio aiutare, dunque taccio. Perché nel mondo dei social hai solo un modo per cancellare qualcosa: non parlarne.
Non sappiamo i nomi di chi costruisce, perché non sono ossessivamente citati nei post di indignazione. Perché il brutto e il male fanno notizia e parlano alla pancia.
Io taccio e ci sono.
Ciò che non nomino, smette di esistere. E il tempo che risparmio, lo uso per agire nel segno della correttezza e della costruttività.
Io taccio, faccio e ci sono.
Non parlare e piuttosto fare. Un mondo migliore si costruisce mentre lo si racconta.