Rilettura 2018 – marzo

Questa voltato fatto sul serio. In febbraio, con Flaubert mi è piaciuto vincere facile, perché ho sempre amato la leggiadria e la minuzia della sua penna. E lo stesso vale per Remarque, anche perché apprezzo – pur soffrendo nella lettura – la narrativa di guerra. Adesso la lotta si fa dura, perché a marzo ho deciso di rileggere I Promessi SposiL’incontro tra la giovanissima Sonia e il signor Manzoni A. è avvenuto in V ginnasio ed è stato animato dalla stessa cordialità che i bravi riservano a Don Abbondio.
Fu una combinazione di fattori. E mi piace riportarli qui, perché il libro è un messaggero potente. Man mano che passano gli anni e lui passa di mano in mano, si trasforma. Non è più solo il contenitore della storia narrata e del suo autore, ma porta con sé anche  le storie di chi l’ha letto. E quella tra me e I promessi sposi è abbastanza speziata. Su Facebook la definiremmo una relazione complicata. Molto.
Iniziamo raccontando questo “fatale” primo incontro…


Intanto, la mia insegnante dell’epoca non mi sopportava: ero acerba, selvatica e venivo “da fuori”. Non ero né bella, né sognante, né innamorata. Così, durante la lettura in classe de I Promessi Sposi, approfittando di un giorno in cui ero afona, la professoressa mi declassò dal ruolo di narratore a quello di Lucia. Io, che trovo il lato comico di tutto, dovevo aprire bocca introdotta da un: “e Lucia piangendo disse…” Subito mi veniva da ridere e arrivava la reprimenda. In più, il mio migliore amico dava la voce a Renzo. E usava un’intonazione spagnoleggiante, facendomi ridere ancora di più! – Ciao Giulio! Che ricordi! Tu ora sei un papà! – E nello stile di interrogazione mancavano solo le bacchettate sul dorso delle mani. Che sarebbero state le mie, per una questione di principio però, perché io ero sempre preparatissima, ma per avere un trattamento pari dovevo sempre fare e dare più degli altri. Insomma, quella professoressa è stata una delle millemila persone incontrate nel mio percorso destinate a farmi sentire inadeguata, sbagliata, non-abbastanza. Sul difendermi da questo tipo di sensazioni, sto ancora lavorando.
Credevo quindi di non amare I promessi sposi per via del brutto ricordo che mi era rimasto dal ginnasio. Cosa che capita a tante persone. O magari, quando li lessi la prima volta non era il momento opportuno. Avevo più o meno 14 anni (sì, ero un anno avanti con la scuola) ero davvero piccina.
Così ho voluto provare a rileggerli a mente sgombra, ora che di anni ne ho quaranta.
E le mie conclusioni mi hanno sorpresa.
Manzoni scrive con una grazia, una solidità e un equilibrio divino. Non c’è che dire. Ho adorato l’addio ai monti, la camminata di Renzo verso l’Adda, i pranzi di don Rodrigo e del conte Attilio, l’Innominato, l’infanzia di Gertrude e la descrizione dell’inizio della peste in Milano, che è assolutamente geniale e modernissima.
E allora, cos’è che non funziona tra me e lui?

“Io non evidenzio. Io sottolineo… forte”

Me lo sono chiesta quando, dopo capitoli di fatica, mi sono trovata a bermi i due dedicati alla Monaca di Monza come fossero un bicchiere d’acqua. Aspetta, aspetta… intendi dire che al pio signor Alessandro M. i personaggi cattivi vengono particolarmente bene?
Non esattamente.
Mi sono resa conto di non riuscire ad entrare in  empatia con i personaggi positivi
, che pure sono descritti in maniera magistrale, a prescindere dalle diverse personalità. Mentre adoro i cattivi.
Come mai? Forse perché i malvagi di Manzoni peccano di un eccesso di volontà. Che anche i personaggi positivi hanno, per carità, ma la vivono e la esercitano in maniera diversa.
Penso all’Innominato. È titanico nel suo monologo, immenso, scolpito. Poi, quando si converte, scolorisce, soffuso di una luce pallida fatta di pentimento e carità. Il che è sicuramente sensato e positivo, ma non di mio gusto.
E allora mi sono resa conto che I promessi sposi sono profondamente impregnati di una visione della vita che può piacere o meno, di un messaggio totalizzante. Ma non è il mio.  Io sono combattiva. Se mi fossi arresa, se avessi accettato il destino o la provvidenza, vivrei in un paese che mi crea profondo disagio, senza amici, tra fanfiction e pedalate solitarie. Non avrei viaggiato a costo di saltare i pasti, non avrei amato a costo di dormire in treno, non avrei fatto mille lavori precari che però mi hanno insegnato mille nuove competenze, non avrei risparmiato su tutto per studiare lo svedese. Per anni, e spesso ancora oggi, sembra che tra la mia realizzazione e me si siano messi i bravi manzoniani e mi abbiano detto “Questo non s’ha da fare!” Ma io non li ascolto. Non sono mica Don Abbondio, né Lucia. Ce le prendo, vado avanti.
Cosa dire?
Questo libro s’ha da rileggere, assolutamente. Se dovete amarlo o se dovete odiarlo, che non sia per i ricordi di scuola, piacevoli o meno. Manzoni non lo merita. È doveroso avere un giudizio personale su I promessi sposi al di là degli adolescenti che eravate.
Potreste essere sorpresi da quel che scoprirete, rileggendolo: di Manzoni, di voi, degli anni che sono passati.
Sicuramente non vi lascerà indifferenti. E si sa, il libri che piacciono proprio a tutti, in fondo non colpiscono a fondo quasi nessuno.

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