Anni fa, avevo già messo la parola fine al mio terzo romanzo, Patres, quando ho scoperto che sarebbe uscito un film di tema analogo, più o meno nello stesso periodo in cui auspicavo uscisse il libro. I tempi di lavorazione e pubblicazione sono lunghissimi, in entrambi i casi. Finalmente ieri Il primo re, film di Matteo Rovere sulla fondazione di Roma, è giunto sul grande schermo. Essendo Patres nelle librerie in ottobre, la materia per me è fresca e viva, quindi sono andata a vedere il film con molta curiosità e senza attese, per potermelo godere e poterlo accogliere, punto su cui noi appassionati di storia antica spesso pecchiamo. Il mio giudizio è quindi articolato e pieno di spoiler, perché ogni affermazione, che sia un elogio o una critica – ci sono entrambi – è motivata. Per cui, continuate a leggere solo se avete già visto il film. Strappato il biglietto? Bene! Allora cliccate “continue reading” per la recensione de Il primo re.
OCCHIO AGLI SPOILER, EH! QUI CE NE SONO A OGNI PASSO.
Iniziamo dalla prima scena, che io ho trovato geniale. Si aggancia al mito per farne un trampolino di lancio e distaccarsene. I due gemelli sono in balia delle acque del Tevere. Ma sono adulti e il fiume è esondato con violenza, trascinandoli via insieme agli armenti. Si cercano, si trovano, si perdono, lottano per sopravvivere e finiscono entrambi in mani nemiche, ritrovandosi prigionieri ma trovando conforto fisico e spirituale nella presenza dell’altro. Ammetto: vederli così vicini mi ha punto il cuore, perché la tematica dell’amore fraterno mi è molto cara e ho nostalgia di quel legame così viscerale.
A catturarli sono stati i nemici di Alba, che però a chi ha approfondito l’epoca risulta un po’ troppo pianeggiante e primitiva. Insomma, il Tevere avrebbe dovuto portarli dritti a Ostia. Comunque, riusciranno a sfuggire e, insieme ad altri prigionieri, cercheranno di attraversare boschi e paludi per raggiungere i colli sull’ansa del Tevere. Nello scontro che precede la fuga, Romolo è ferito in maniera molto grave. Il fratello se ne prende cura, sfidando i compagni che lo vorrebbero abbandonare e diventando di fatto protagonista di tre quarti del film. E questa è una cosa positiva, perché il mito vuole che Remo fosse il gemello apparentemente dominante: primo a nascere, più forte e baldanzoso. Su questo tema si snoda un saggio di Andrea Carandini, archeologo e massimo studioso della Roma regia, il cui titolo è Remo e Romolo, dai rioni dei Quiriti alla città dei Romani. Per Patres, i testi di Carandini sono stati la Bibbia, questo che cito in particolare. La prima parte del film trascorre con questo pugno di uomini affamati, spaventati e braccati, che cercano la strada meno rischiosa per raggiungere la loro meta. Tra una prova e l’altra, Remo diventerà il loro capo. La pellicola è giunta più o meno nel mezzo quando, a mio avviso, la trama mostra alcune criticità sia nella logica narrativa che in un paio di scelte.
Con un capo all’altezza, i fuggitivi riescono a difendersi e anche a razziare. Arrivano quindi in un villaggio, di cui hanno sterminato e guerrieri, e lì si insediano. Remo assume il titolo di re del villaggio e si impegna a salvare la vita del fratello, ancora in bilico per la ferita. Il punto è che il villaggio – dovrebbe essere latino – è davvero primitivo. Quelle del Latium Vetus sono popolazioni protostoriche, non neolitiche. All’epoca, quel villaggio avrebbe commerciato con gli Etruschi e i Greci si sarebbero affacciati lungo il fiume. Avrebbero tessuto splendide stoffe e lavorato con perizia i metalli. Vivevano in capanne, che però erano salde, rinforzate e decorate. Le sappiamo ricostruire con precisione grazie al fatto che generalmente riponevano le ceneri in urne a forma di casa. Insomma, sul fronte aspetto/abbigliamento non ci siamo.
Ad ogni modo, Remo interroga la vestale-non-vestale che ha portato da Alba, chiedendole di predire il futuro usando l’aruspicina, arte divinatoria etrusca che consente di nelle viscere degli animali. Qui ci sono un po’ di pasticci, perché le vestali all’epoca non esistevano. Sono un’istituzione romana e Roma deve ancora nascere. Esistevano giovani sacerdotesse, fanciulle dedite al culto del fuoco domestico. Sarebbe bastato chiamarla così: “sacerdotessa”. In Patres sono impazzita per trovare sinonimi senza chiamare in causa l’ordine delle vestali. In più, quando la donna sacra legge il futuro nel fegato del capretto, si comporta come una sibilla in preda alle visioni. E mi confermano amici più esperti che l’aruspicina, oltre ad essere arte etrusca, era arte maschile.Insomma, si è scelto di creare una figura ibrida tra l’aruspice e la sibilla, chiamandola vestale. È questo è anche il punto in cui Remo ha una reazione inconsulta, che non vi dirò, ma che ho trovato abbastanza fragile. La storia poi corre verso nord. Il legame tra i fratelli chiama di nuovo e Romolo, finalmente in piedi, dopo essersi fatto carico della piccola popolazione senza più re né custodi (e aver toccato, lui maschietto, le braci del fuoco sacro? Mh…), correrà ad aiutare Remo. La disputa che sorgerà tra i gemelli non sarà per il confine della futura città di cui gli dei hanno scelto un solo fondatore, ma per un altro recinto sacro. È un peccato, perché lascia sfumare il concetto di pomerium. Cosa fosse, l’ho raccontato diffusamente qui su Greenious, con un linguaggio semplice. Dateci una letta.
Mentre Remo esala l’ultimo respiro, di nuovo ci si riavvicina al mito, perché spiritualmente i gemelli tornano a essere una sola cosa. Mi è piaciuto che la pietas fosse una delle caratteristiche di Romolo, perché era una virtù molto cara ai Romani, e ho trovato particolarmente convincente la recitazione in lingua. Non posso valutare quanto sia affidabile la ricostruzione del protolatina, a sentirlo sembra una “restituta” modificata, a volte diventa latino classico, ma dovrei leggere lo script. Però non c’è stata nessuna inflessione dialettale, la resa è stata naturale e credibile. Anzi, ci si chiede perché ancora non sia la norma. Il prossimo che sento urlare “Eiv Sisar” lo condanno ad bestias. Tutti i film ambientati nell’antica Roma, io li pretendo in latino. Si può fare, lo si faccia! La fotografia è sopra la media, c’è un tocco di 300 e di GOT che piacerà anche a chi non è interessato alla storia antica; il film è duro, crudo, spara in alto, fa le sue scelte. Gli attori sono all’altezza e la loro possanza fisica è grezza e naturale: da (fallita) frequentatrice di sale pesi posso dire che solo in Remo si vede un tocco di palestra ma essendo i suoi pettorali un gran bel vedere almeno metà pubblico glielo perdona con occhi lustri. Giudizio finale? Si poteva fare di più sul piano della trama. Staccarsi dal mito è una scelta ed è lecito, ma allora bisogna aggrapparsi più alla Storia. E la cultura dei popoli latini, i sacerdozi, il pomerium sono storia. Tuttavia, che questo film si sia fatto è già un miracolo. Mostra che l’Italia ha tutti gli strumenti tecnici e recitativi per raccontare la sua grande storia e affrancarsi sia dalla mediocrità programmata che dall’autoreferenzialità dei soliti noti. Se qualcuno, uscendo dal cinema, andrà a comprare un testo di Carandini, la scommessa sarà vinta. Onore al merito e al coraggio di chi ha voluto portare sul grande schermo una storia così antica, parlando una lingua che non esiste più e che sarebbe bello usare ancora e ancora e ancora.